martedì 26 giugno 2012

L'UOMO A RUOTE

Si comincia dal passeggino, si prosegue con il triciclo, poi arrivano in rapida sequenza  la macchinina, il monopattino, gli skates, la bicicletta, il motorino, la prima auto, il suv, il camper. Già prima di nascere, nell'accogliente pancione materno, l'uomo si abitua a muoversi parassitariamente, sempre grazie a qualcos'altro: in genere, le ruote. Darwinianamente, ci evolveremo in una razza provvista di rotelle, là dove un tempo spuntavano gambe. La teoria è confermata da un fenomeno strisciante, ma conclamato: la progressiva sparizione dell'habitat del pedone, lui sì "specie a rischio" da proporre al WWF. Fateci caso: sui marciapiedi chi procede sulle proprie gambe è ormai una minoranza. Sfrecciano - mettendo a rischio la sua sopravvivenza - tutta una serie di nuovi animali metropolitani : ciclisti arroganti cellumuniti, monopattini instabili, motorette in cerca di parcheggio, strani esemplari di bighe a motore cavalcate da seri professionisti dall'aria compunta... E' inutile: il pedone non è di moda. Altrimenti come spiegarsi il fatto che il vecchio, rassicurante marciapiede (che infatti anche nell'etimo pareva riferirsi a quelle estremità così desuete) si sia poco a poco trasformato in "marciagomma"? Tutte le razze sopra elencate, tra l'altro, ostentano un livoroso disprezzo per chi continua a usare, per muoversi,  il "caval di San Francesco" (ah, quanta poesia in questa definizione d'antan....), tant'è che l'aggressione verbale per il malcapitato che non sente arrivare da dietro il ciclista inferocito e saettante - e del resto, mica ha gli specchietti retrovisori, lui - è assai diffusa. Che tristezza. Mi piacerebbe scrivere al buon Pisapia - che tanto tiene alla causa dei bikers (si dice così adesso) - perché dall'alto del suo scranno volgesse uno sguardo misericordioso anche a noi tapini che trasciniamo le suole sui marciapiedi lordi e polverosi di questa città. In fondo, anche noi siamo esseri umani.... Per ora.

sabato 2 giugno 2012

DIAMOCI UNA CALMATA, SORELLE

Non mi piace ammetterlo, ma ormai è una certezza: negli ultimi anni le donne sono diventate più astiose e aggressive degli uomini. Sarà la fretta da troppe incombenze (le femmine italiane godono del triste primato di occuparsi della famiglia circa 3 volte più delle loro consesse nel mondo), sarà la nevrosi da acrobate della gestione del tempo, sarà che la vita a Milano è un inferno, ma ogni volta che un clacson mi invita brutalmente ad affrettare il passo sulle strisce o a partire a razzo al semaforo, 8 su 10, si tratta di una donna. E' una grande delusione. Ho sempre pensato che avremmo portato nel vivere civile un modo più rilassato, urbano e mite di affrontare le inevitabili difficoltà quotidiane. Invece, siamo quasi più assatanate degli uomini: gridiamo insulti irriferibili se qualcuno ci fa un dispetto viabilistico, sgommiamo come stuntmen in inseguimenti automobilistici che finiscono poi risibilmente al semaforo successivo, siamo incazzate anche in bicicletta (quante di noi smoccolano contro i poveri pedoni che intralciano le nostre due ruote nelle riserve indiane assediate dei marciapiedi cittadini...), sbraitiamo come ossesse al cellulare, pilotiamo come fossimo a Daytona i passeggini (o meglio passeggioni...) dei nostri pargoli... Insomma, siamo un disastro. Dov'è finita la nostra "differenza"? Invece di sgretolare dall'interno il modello maschile, competitivo e arrogante, ci siamo adeguate ad esso fino al punto da incorporarlo e farlo nostro. Perché le donne, quando imitano gli uomini, riescono ad essere anche peggiori. Vorrei proporre una riflessione: fermiamoci un momento. E cerchiamo di ritrovare la nostra diversità, quella che per tanti anni abbiamo rivendicato con orgoglio. Vogliamo il pane e le rose. Vogliamo le nostre giuste soddisfazioni professionali, ma restando femminilmente pacifiche, solidali, empatiche con il mondo. Lo so, non è facile. Ma proviamo a farlo partendo dalle piccole cose: istituiamo una specie di "fair play rosa", dappertutto. In auto, al lavoro, al supermercato. Non priviamoci della nostra grande capacità di accettare, sostenere, trasformare. Non rinunciamo a cambiare il mondo, creandone uno finalmente a misura d'uomo. E di donna.